L’altra Siria che rinasce in Libano
Julia Neumann, Joudy El-Asmar, Doha Adi / Liban
Julia Neumann, Joudy El-Asmar, Doha Adi / Liban
Nelle scuole del Libano, artisti siriani usano la pittura, il teatro e la musica per trasmettere i suoni e l’identità della Siria ai bambini e alle bambine nati e cresciuti come rifugiati nei campi profughi.
Quando le dita di Maxcim Aldahouk cominciano a strimpellare le corde del suo oud, le note che vibrano dall’interno dello strumento si sentono appena. Sono sommerse dal cicaleccio di bambini e bambine, dal ritmico battere delle loro mani, dalle voci che intonano con entusiasmo le parole di una celebre canzone tradizionale di Aleppo, Qarrasiya, ovvero “prugne secche”. I suoi versi sono duri, parlano di ingiustizia e dell’eterno dramma della vita e dell’amore: “Stare lontano dal mio amore non va bene, voglio che il mio amore sia al mio fianco sempre, giorno e notte”. Tutti gli allievi di questa classe vengono dalla Siria e conoscono le parole della canzone a memoria. Le hanno imparate qui, nella scuola informale Bara’em Al-Mustaqbal, un centro messo su nella Valle della Becaa dall’ONG Sawa for Development and Aid (SAWA).
Il centro si trova a Bar Elias, città a soli 13 chilometri dal confine con la Siria. Oggi accoglie 110 mila siriani, divisi in 72 accampamenti. Numerose famiglie sono qui da molti anni, alcuni dei/lle bambini/e che frequentano la scuola sono nati/e qui, l’unica casa che hanno conosciuto sono queste tende.
“Per i genitori di questi bambini, la Siria è una madre. Ma per loro, sono solo immagini”, fa notare Aldahouk, 36 anni, musicista originario di Sweida, nel sud-est della Siria, che si è formato all’Istituto di Damasco per gli Studi Musicali e ora ha fondato una sua band, oltre a dare lezioni ai bambini di Bar Elias. Con la sua musica cerca di ridare vita alle immagini sfuocate che i bambini hanno della Siria, e farli sentire a casa. “Cerchiamo di stabilire un ponte tra loro e il paese di origine attraverso le tradizioni folcloristiche e la musica”, spiega.
Ovunque in Libano oggi, i ragazzi e le ragazze libanesi condividono le aule con bambini/e e adolescenti provenienti dalla Siria. Ma dato che questi ultimi sono molto numerosi, è stato necessario creare delle scuole solo per loro, spesso su iniziativa di diverse ONG. In una delle classi della scuola creata da SAWA i bambini completano una carta geografica con i nomi delle principali città dei paesi del Levante, risolvono problemi di matematica in arabo e studiano le regole per il plurale delle parole inglesi. Ma imparano anche a cantare, dipingere e fanno teatro. In queste scuole, l’arte è molto di più che semplice intrattenimento: è un modo per consentire ai bambini di ritrovare ed esprimere la propria identità siriana.
Suonare l’oud, per Aldahouk, è un modo per evocare il luogo delle origini e un senso di appartenenza. La musica, non solo per gli artisti come lui ma anche per i bambini, è diventato un modo per mantenere il contatto con il paese di provenienza. “Nessuno può vivere senza un senso di appartenenza”, spiega Aldahouk. “Siamo esseri sociali e parte di una comunità. Possiamo trovarci in un luogo diverso dalla nostra società originaria, ma ce la portiamo comunque dietro”.
“Dobbiamo fare in modo che i bambini sentano di continuare ad appartenere al luogo da cui vengono. Che hanno delle origini, delle radici. La musica ricorda loro la Siria, i versi delle canzoni raccontano il contesto sociale di provenienza”, continua.
Una volta Aldahouk ha iniziato la sua lezione chiedendo ai bambini di dire il proprio nome e la città da cui venivano. “Ad un certo punto è toccato a una bambina, che ha detto ‘Mi chiamo Maryam. Sono di Abboudieh’. Ho obiettato: ‘Non sei di Abboudieh, Abboudieh è un campo’”, ricorda Aldahouk. “Lei ha meno di 6 anni, e per lei il campo è la sua casa. Questo mi ferisce. Le ho detto: ‘Tu sei siriana, la Siria è il tuo paese e speriamo che un giorno tu possa farvi ritorno’”.
La maggior parte dei rifugiati siriani in Libano vive al di sotto della soglia di povertà, spesso in cattive condizioni in insediamenti informali di tende sparsi per il paese. Il Libano non ha finora riconosciuto formalmente nessun campo, così gli insediamenti nascono in maniera arbitraria, alcuni su terreni privati, altri semplicemente ai bordi delle strade. La maggior parte degli alloggi sono fatti di tela e staccionate di legno: troppo caldi d’estate e gelidi d’inverno. L’accesso all’acqua e ai servizi è limitato, e non ci sono né privacy né sicurezza. Molti bambini hanno già perso 3, 4 o anche 5 anni di scuola, e sono traumatizzati dalla morte dei propri cari e dagli orrori di cui sono stati testimoni in Siria.
Lontano dai campi della Becaa, sulla costa settentrionale, c’è Tripoli, la seconda città del Libano: vanta una lunga storia come centro di scambi commerciali e culturali e ha un centro storico ancora ben conservato. Oggigiorno però anche Tripoli deve fare i conti con la povertà diffusa e l’emergere di conflitti urbani. Youssef Youssef, attore ventisettenne originario di Homs, vive qui ormai da 3 anni e lavora con i bambini nei campi di Miniara e Halba, situati a Tripoli e Akkar rispettivamente, poco a nord della città. Utilizzando il disegno e il teatro, Youssef parla ai bambini della loro identità e della relazione con il proprio corpo.
Nelle scuole di Basmeh & Zeitooneh, un’altra ONG, Youssef sta facendo ascoltare ai bambini la colonna sonora del film Amélie, del musicista francese Yann Tiersen. Il brano è stato scelto da uno psicologo per il suo effetto rilassante, e dato che i bambini si sono abituati a sentirlo, adesso gli chiedono continuamente di metterlo su. Youssef distribuisce loro matite colorate e colori acrilici, perché disegnare li aiuta “a sbloccare la capacità espressiva e dar voce ai propri sentimenti”. Il verde, per esempio, esprime tristezza, l’arancione gioia.
Il desiderio di Youssef è che nessuno di loro dimentichi la Siria, anche se per molti di loro questa parola è diventata soprattutto sinonimo di guerra: “Un posto orribile dove non vogliono tornare”. L’artista chiede ai bambini di condividere storie legate ai loro ricordi. “Che cosa provi?”, chiede. “Cosa è successo esattamente?”. Nel corso di una lezione intitolata Nostalgia, Youssef aiuta i bambini a condividere i ricordi del posto dove vivevano. “In generale i bambini provano nostalgia per le cose che hanno dovuto abbandonare in Siria”, spiega. Un orsacchiotto, una bicicletta, l’albero di olivo nel cortile della propria casa…
Mentre Youssef lavora per aiutare i bambini a ricostruire la propria identità a livello individuale, Bashar, che chiede di usare solo il suo nome di battesimo e ha 32 anni, cerca di riformulare un senso di identità collettiva siriana attraverso la raccolta di opere d’arte e storie che presenta sul sito Syrian Creative Memory, nato per preservare la memoria della creatività siriana durante il conflitto. Secondo Bashar, non esiste più alcuna identità siriana condivisa ormai. L’emarginazione dei siriani e la separazione delle famiglie, l’allontanamento forzato dai luoghi d’origine e l’emergere o il rafforzarsi delle diverse affiliazioni politiche hanno finito per svuotare completamente di senso questo concetto.
“La nostra memoria artistica e culturale si è trasformata in seguito alla rivoluzione, frantumandosi in tante diverse memorie collettive”, spiega. “La produzione artistica risente oggi moltissimo degli eventi di cui gli stessi artisti sono stati testimoni: la distruzione delle città e la lacerazione delle famiglie. È questa la nuova identità che gli artisti trasmettono oggi: una manifestazione di agonia, miseria e sofferenza”.
Ma lavorare con espressioni artistiche e identitarie così cupe e dolorose, non può ferire ulteriormente i bambini? chiediamo. No, secondo Bashar. Quando lavorano con i bambini, gli artisti si concentrano sul senso di appartenenza e di comunità, anche se nella propria produzione creativa danno voce all’esperienza della violenza. Il senso di appartenenza, secondo Bashar, non deve necessariamente venire dalla comunità siriana. Anche la società in cui vivono oggi – il Libano – è un fattore cruciale nella costruzione della loro identità. “Vivere in un paese straniero ha un impatto anche sulle cose che prima i siriani avevano in comune, e finisce per rimodellarle”, spiega Bashar.
Anche Youssef, l’attore siriano che oggi vive a Tripoli, nel suo lavoro nelle scuole presta grande attenzione al senso di appartenenza. “L’ultima cosa che vorrei, è che la prospettiva da cui questi bambini guardano il mondo sia solo quella della tenda in cui vivono”, dice. “Viviamo in un’emergenza costante e dunque non possiamo fare leva sul concetto di recupero oppure fare piani per il futuro. Nella situazione attuale, la cosa più importante per me è far in modo che ogni bambino/a possa credere che ha un luogo d’origine”.
A volte Youssef chiede ai bambini di dire l’oggetto che manca loro di più, della loro casa in Siria, e poi li aiuta a ricrearlo con la creta. Così facendo i bambini sono stimolati a raccontare la propria storia e le loro esperienza.
Ed è proprio quello che fanno i bambini nella scuola della Valle della Becaa dove Aldahouk suona l’oud: ricreare attraverso l’arte ciò che ricordano della Siria. Alcuni con carta e colla danno forma a paesini e città. Due bambine, sedute a un tavolo arancione di fronte alla classe, stanno stendendo il vinavil su fogli di carta di giornale, che incollano per realizzare un vaso di carta pesta.
Rouba Troudi, scultrice e insegnante d’arte originaria della provincia di Sweida, lavora con i bambini su oggetti tradizionali siriani: un vaso tondeggiante con l’imboccatura a forma di imbuto usato per le conserve, una spada Damascena, il celebre campanile di Homs o i mulini ad acqua di Hama. Invita i bambini più grandi a descrivere ai loro compagni/e di classe specifiche strade o viali, per far rivivere loro le atmosfere delle città siriane. Poi, con materiali di recupero – bottiglie di plastica, riviste illustrate – invita tutti a riprodurre i luoghi e gli oggetti che sono stati descritti.
“Tornare nei luoghi fisici e geografici è il modo migliore per ricordare la Siria”, spiega Rouba. “Comunque, per quanto io possa raccontar loro della Siria, un sacco di dettagli continueranno a sfuggirgli. Per quanto proviamo, dobbiamo essere consapevoli che possiamo solo aiutare i bambini a farsi un’immagine mentale delle tradizioni, delle case, delle strade”.
Che cosa succede con i bambini e le bambine che non hanno alcun ricordo della Siria? Coloro che sono nati in Libano, o che riescono a ricordare solo pochi dettagli? Non è che il senso di nostalgia e il continuo sentir definire ‘casa’ luoghi che non possono più visitare, sentire, annusare, finiscono per avere un impatto negativo su di loro?
Secondo Bashar, del progetto Syrian Creative Memory, parlare ai bambini di arte e identità siriana non influisce sulla loro integrazione. “Si cerca solo di preservare il patrimonio culturale tradizionale. Quello che insegniamo non equivale certo a essere lì e vivere quelle tradizioni”.
Per permettere ai bambini di stabilire un equilibrio tra il mantenere i legami con la Siria e il sentirsi a casa in Libano, Aldahouk combina l’insegnamento dei canti siriani con lezioni di musica in genere. “Così imparano anche espressioni di altre culture”, dice il musicista. In particolare, insegna i ritmi veloci tipici della musica folcloristica araba e altre espressioni musicali comuni a tutta la regione. Il suo repertorio comprende brani del maestro egiziano Abdel Halim Hafez e di Fairuz, cantante libanese molto popolare. “Ci sono dei bambini che non hanno mai sentito Fairuz”, racconta Aldahouk. “È mio dovere far conoscere loro artisti classici e famosi come lei, cantanti che hanno dato un contributo fondamentale alla musica con le loro melodie e il loro stile”.
Attraverso il canto tradizionale, le costruzioni di cartapesta e la pittura con gli acrilici sta piano piano nascendo un’altra Siria, creata non solo dagli artisti della comunità siriana, ma anche dai bambini, una Siria le cui fondamenta sono costituite anche dalle loro esperienze e dai loro sogni. Per ricreare ciò che è andato perduto, i bambini non si servono solo di vecchie riviste, lattine o contenitori di plastica usati, ma anche dei loro sentimenti più profondi.
“Ai ragazzi cerco di ripetere sempre che anche in Libano, usando carta e penna è possibile cambiare le cose. E in futuro potranno tornare in Siria e diventare gli attori diretti del cambiamento. Potranno ricostruire. Potranno diventare i leader del futuro”, conclude Youssef.
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